A chiunque abbia osservato (per davvero) un bambino giocare può essere capitato di restare “rapito” dal comportamento dei piccoli e anche di rimpiangere un’epoca passata, ludica e divertente. Ma …cos’è il gioco ? E perchè è così importante per il bambino (ma anche per l’adulto…!) giocare?
Quella che potrebbe essere una semplice domanda apre a scenari molto complessi della vita mentale: gioco e sperimentazione possono essere considerati quasi sinonimi.
L’essere umano giocando sperimenta dapprima sè stesso (i bambini giocano fin da neonati!) e poi sè stesso in relazione al mondo
Giocare è infatti un impulso: come sottolinea Panksepp non si ha bisogno di impararlo, viene da sè, e pertanto utile allo sviluppo di competenze e necessità vitali per l’essere umano.
In un primo momento i bambini conoscono sè stessi e le caratteristiche dell’ambiente: basta pensare a un neonato che scopre i connotati fisici degli oggetti toccandoli con le sue manine, oppure sperimentando la scomparsa / ritorno dei volti conosciuti attraverso il gioco del cucù.
Dopo 18 mesi i bambini iniziano poi a trattenere memoria biografica e cioè cominciano a ricordare gli eventi accaduti, soprattutto se li riguardano. Queste esperienze possono venire tradotte simbolicamente attraverso varie attività ludiche. Per esempio i bimbi in età sensibile all’acquisizione del controllo degli sfinteri cominciano ad apprezzare molto tutti i giochi o le letture riguardanti la cacca, o ancora giochi che consentano loro di imitare azioni specifiche osservate quotidianamente con genitori, nonne, maestre, amici, fratellini e via dicendo.
Con lo sviluppo del linguaggio il bambino accelera ed espande l’elaborazione giocosa della sua quotidianità, ma anche lo sviluppo di fantasia ( che esploderà nel favoloso pensiero magico della prima infanzia!).
Da qui in poi si cominciano a vedere straordinari scenari di creatività e quindi una delle funzioni psicologiche fondamentali: creare, trasformare.
Infatti attraverso il gioco il bambino può anche elaborare contenuti difficili e dolorosi, tanto che si possono intercettare cambiamenti di intensità e dell’emotività che emergono in determinati momenti di gioco e/o in concomitanza di temi “sensibili” per il bambino (M. Klein)
Anche quando la parola scarseggia, e soprattutto quando non ci sono parole per descrivere intenzioni, sensazioni, emozioni, stati d’animo, pensieri, il gioco consente di raccontare, elaborare, creare. Si tratta dunque di un attività fondamentale a due livelli: personale, dove il bambino si mette alla prova da solo e sperimenta, ma anche relazionale.
Infatti, come disse un mio professore all’Università, “il bambino che desidera salire sulla giostra dei cavalli e continuare a girare in tondo, non vuole solamente fare un giro in giostra, ma desidera essere guardato dall’adulto che lo accompagna”.
Così l’adulto che a volte partecipa, ma altre volte assiste solamente, è destinatario di innumerevoli comunicazioni da parte dei più piccoli.
Le sensazioni positive mediate da neurotrasmettitori quali la dopamina, che scatena la sensazione di euforia, mediano emozioni che proprio perchè condivise diventano legame potente tra le persone coinvolte. Il gioco infatti consente anche di rafforzare e connotare positivamente il legame con altro, adulto o coetaneo che sia.
A livello cerebrale ciò è così potente che addirittura parti del sistema nervoso evolvono, come nel caso della corteccia frontale, deputata all’organizzazione e pianificazione del comportamento, e l’amigdala, protagonista invece del circuito emotivo.
E nell’adulto dove va a finire la capacità di giocare?
Si potrebbe scrivere molto a riguardo , ma qui mi limiterò a sottolineare che, anche quando non si “gioca” in senso propriamente inteso (come potrebbe essere un match sportivo, un puzzle, un karaoke, ecc.) gli aspetti ludici non vengono persi ma utilizzati in altro modo: l’adulto impara a giocare con le parole e più in generale con la creatività con cui può sublimare pensieri ed emozioni.
Il gioco diventa così non tanto qualcosa che “si fa” ma una capacità di entrare in contatto con la vita toccandola, rielaborandola, ri-creando.
Può essere giocoso dipingere, scrivere, suonare, ma anche saper scherzare o ancora vivere il sesso giocosamente.
Vedere un bambino assorto nel suo gioco non dovrebbe quindi rimandarci solo ad un momento passato di svago e magari assenza di preoccupazioni, ma dovrebbe ricordare all’adulto che quel bambino è ancora dentro di lui e contattarlo potrebbe qualitativamente cambiargli la vita.
Concludo con una celebre frase di D. Winnicott, celebre psicoanalista infantile:
“E’ nel giocare e soltanto mentre che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sè”
Bibliografia
- Winnicott D. (1974). Gioco e realtà. Roma: Armando, 1974
- Klein, M. (1932). La psicoanalisi dei bambini, tr. it Giunti, Firenze 2013
- Panksepp J., 1998, Affective Neuroscience: The Foundations of Human and Animal Emotions, Oxford University Press
- Panksepp J., Biven L., 2012, The Archeology of Mind. Neuroevolutionary Origins Of Human Emotions, New York, W.W. Norton & Company (tr. it. Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane, Milano, Cortina, 2014).
© Dr.ssa Sara Azzali
Psicologa Psicoterapeuta
Studio di Psicologia a Fidenza (PR)
Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo su uno di questi social e aiutami a far conoscere il mio blog! 🙂