Il fenomeno Blue Whale ha invaso le testate dei giornali cartacei e on line, rincorrendoci anche attraverso reti televisive e social.

Per chi non lo sapesse si tratta di una “sfida” lanciata sul web, partita dalla Russia, proposta da un soggetto gravemente disturbato e ad oggi arrestato, che propone 50 tappe autolesioniste. La “sfida finale” chiede al ragazzo di suicidarsi. Alcuni dei ragazzi “adescati” si sono realmente uccisi lanciandosi da un palazzo, azione documentata da un video che ritrae caduta e schianto.

Veniamo alla preoccupazione. La notizia, diffusasi in primis attraverso un servizio delle Iene, ha ovviamente toccato paure e preoccupazioni del mondo adulto. Viene da chiedersi, i ragazzi possano aderire così facilmente a qualcosa di tanto insensato e macabro?

Se è vero che chiunque attraverso il web possa potenzialmente venire a contatto con questa assurdità, non è vero invece che “chiunque” la intraprenderebbe a cuor leggero. Le Iene parlavano invece addirittura di “lavaggio del cervello”. Viene da dire però che per quanto l’adolescenza sia un periodo di transizione che apre a vulnerabilità è difficile che un ragazzo sereno, con una buona rete di contatti e riferimenti, possa incappare in un sentiero di questo tipo così facilmente quanto potrebbe essere camminare per strada e inciampare in una buca. A questo proposito penso che la notizia “shock” abbia accentato forse in maniera eccessiva questo aspetto di “fatalità”, sollecitando forti preoccupazioni negli animi dei genitori. E’ anche vero però che alcuni ragazzi hanno raccolto il macabro guanto di sfida: perché?

Chi sta già male, chi è vulnerabile, può divenire più facilmente preda di trappole reali e/o virtuali. Si tratta di ragazzi fragili, con dentro un profondo malessere di cui forse gli altri e in particolare il mondo adulto non si è accorto. D’ altro canto, se un ragazzo sta male, si autolesiona, si alza tutte le mattine alle 5.00, i segnali arrivano. Se si fa attenzione i propri figli, per quanto tentino di “tenere nascosto” ciò che succede, noterete segni. Nel caso della blue whale si tratta anche di segni inequivocabili sulle braccia, sulle mani, sulle labbra (il taglio di una lametta non è certo il graffio di un gatto!). Bisogna osservare e anche essere disposti a vedere, in quanto per un genitore, constatare che il proprio figlio soffre e/o si fa del male, è quanto di più doloroso possa vivere.

Per aiutare i figli e prevenire che essi gestiscano il loro dolore da soli, affidandosi anche a persone poco raccomandabili, è fondamentale pensare di poter entrare in contatto con la loro sofferenza. In primo luogo ascoltare senza giudicare, cercare di comprendere, tenere vivo un dialogo. Queste sono le basi che consentono all’adolescente di potersi aprire e chiedere aiuto. Perchè è fondamentale che i ragazzi possano pensare che esiste una rete elastica che può accogliere e proteggere le loro cadute!

A volte il genitore si trova in difficoltà nel decidere se è il caso di preoccuparsi o meno: in questo caso è bene tenere a mente che non si è soli. I genitori possono fare riferimento alla loro rete di contatti, sia quella già conosciuta che quella disponibile sul territorio. Esistono servizi sia pubblici che privati predisposti ad accogliere tali domande. Inoltre, qualora ci si senta smarriti, pediatri e i medici di base possono rappresentare un riferimento di fiducia cui domandare un re indirizzamento verso i professionisti del benessere mentale.  I ragazzi devono poter sapere di non essere soli, i genitori, a loro volta, devono sapere di poter contare su qualcuno che possa a loro volta accompagnarli a capire e affrontare problematiche importanti, che si teme non saper gestire da soli.

© Dr.ssa Sara Azzali

Psicologa Psicoterapeuta

Fidenza, Via XXV Aprile 1

Parma, Strada Repubblica 61

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“Blue whale”: di cosa si tratta e quanto ci dobbiamo preoccupare?
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